Non sono pazzo

Tutto chiede salvezza - Non sono pazzo

Ho da poco finito di guardare la serie italiana “Tutto chiede salvezza” su Netflix ispirata dal libro omonimo di Daniele Mencarelli, con un cast di attori fantastici. Il tema è quello della “follia”.

Il protagonista costretto a un TSO per via di attacchi di rabbia violenti si ritrova in un ospedale psichiatrico con cui crede di non aver nulla a che fare perché lui non è pazzo come quelli che sono in stanza con lui… il resto consiglio di guardarlo, perché stimola a riflettere e spinge a superare certi stigmi verso la salute mentale: “Io dallo psicologo? Dallo psichiatra? Non sono pazzo!”

La pazzia. Io sono sempre più convinta che la follia sia per tutti e non solo per chi ha problemi di lesioni cerebrali, per esempio.
Basta il momento giusto in determinate condizioni a seguito di certi eventi. Può bastare un attimo che si scatena qualcosa dentro (o spegnere).

Io non ho subito TSO, ma ho avuto bisogno dello psicologo e dello psichiatra per esperienze che mi hanno fatto capire quanto sia naturale vivere certe dinamiche se sono premuti determinati interruttori. Io non ho determinante competenze, ma ho potuto rendermi conto da conoscenza diretta.

Tra il 2000 e il 2001 ho iniziato ad andare dalla psicoterapeuta perché ero convinta di essere schizofrenica o qualcosa del genere per via del mio modo di vivere la mia sensibilità, motivo per cui quando ero più piccola sono stata anche un po’ bullizzata.

La psicologa mi ha rassicurata del contrario, ma mi ha spiegato che tra la cosiddetta “normalità” e la cosiddetta “pazzi” ci sono molte sfumature, molti gradi di alterazioni che un po’ tutti abbiamo.
Comunque c’era da lavorare, perché da diverso tempo soffrivo di depressione, attacchi di panico e fama nervosa fin da bambina. Passavo periodi in cui alternavo stati d’euforia a umore molto basso.

Finché nel 2003 sono entrata in anoressia, per fortuna presa sul nascere.
Avevo cominciato a perdere quel peso in più che avevo accumulato e all’inizio sembrava tutto nella norma, ma in poco tempo non sono riuscita più a mangiare.

Un giorno ho capito che qualcosa non andava quando, specchiandomi, ho visto che ero diventata un manico di scopa senza fianchi e con le costole che si contavano.
Impiegavo anche quaranta minuti per mangiare 2 cucchiai di minestra con il sudore che colava per l’enorme fatica. Mi sforzavo per far sì che lo stomaco non si disabituasse al cibo. Devo dire di essere stata abbastanza metodica, ma non è bastato.

Ricordo il giorno in cui ero in bagno e strisciando per terra mi sono aggrappata alle gambe di mia madre piangendo e ho detto: “Mamma, ti prego, aiutami. Non sto bene”.

A quel punto ho dovuto fare dei passi in più e sono andata dallo psichiatra per la prescrizione di psicofarmaci.
Il giorno in cui mi sono trovata nella sua stanza è stato un trauma.
Mentre tra me e la psicologa non c’erano barriere, tra me e lui c’era una scrivania che per me rappresentava un’enorme distanza tra la mia necessità e l’umanità che cercavo.
Mi ha aiutata la sua empatia e quando mi ha chiesto perché fossi lì, ho iniziato a piangere sentendomi molto piccola e gli ho risposto: “Perché sto male”.

Dopo un confronto, sono uscita dallo studio con una ricetta per antidepressivi e sonniferi. Ne ho provati diversi perché i primi mi avevano creato problemi.
Non è affatto piacevole perché ti alterano, ma in quel momento sono stati di supporto insieme alla forza di volontà e al supporto di chi mi è stato vicino.
Li ho assunti per nove mesi, finché, contro parere medico, li ho smessi di mia iniziativa perché avevano cominciato a fare effetto contrario; i miei riflessi erano alterati tanto che ho smesso anche di guidare.

Ho sentito che potevo lasciare andare i farmaci ed è andata bene. Avevo ricominciato a mangiare bene e a riprendere peso.
Non mi sono mai vergognata di chiedere aiuto, ma il disagio è stato enorme perché mi sentivo inadeguata verso la vita.

Quando ho guardato questa serie Tv, mi sono immedesimata molto perché è davvero molto coinvolgente al punto tale di toccarne l’umanità. La rabbia e il dolore espressi sembrano reali.
I momenti di profonda consapevolezza e complicità tra i vari protagonisti, i folli della corsia arrivano a “fare famiglia” tanto da considerarsi in una propria normalità.

Certo è Tv, ma non dubito che possa essere così. Il dolore che ti fa affrontare i draghi ti può aprire ad una maggiore autoconoscenza, quella che può anche dilaniarti ma può portarti al superamento di certi limiti soffocanti, può persino liberarti da ciò che non ti permette di ESSERE TE STESSO.

Non sempre è così, a volte si è inghiottiti del tutto dalla mancanza di lucidità. La lucidità.

Sono felice di questa serie così come di altre iniziative, soprattutto dove protagonisti-testimoni sono i ragazzi.
Secondo me dovrebbe esserci una naturale cultura della educazione alla salute mentale, così come sulla morte (e altro), fin da quando si è piccoli. Giusto per crescere con qualche dose di paura in meno!

Ho goduto di ogni puntata, facendo molte ricapitolazioni. Un ponte tra quel mio passato e nuove comprensioni dell’accaduto nel presente.
Condividere queste esperienze, come ho fatto con altre, mi aiuta a liberarmi ulteriormente.
Tenere troppo dentro, anche fossero solo ricordi, può far molto male. Almeno a me lo ha fatto.

Se vai dallo psicologo, dallo psichiatra, da un medico o altri operatori non è perché tu sia sbagliato, ma è perché hai bisogno d’un aiuto che semplicemente non sai più darti da solo, con le tue sole forze. Volersi bene è anche chiedere aiuto.

Serena Derea Squanquerillo

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