“Estetica della performance” – Intervista a Raffaele Schiavo, musicista, performer e formatore

“Estetica della performance” - Intervista a Raffaele Schiavo, musicista, performer e formatore

Per la sezione interviste, oggi è con me Raffaele Schiavo, siracusano, cantante e cantattore, musicista e musicoterapeuta, compositore e autore, ricercatore indipendente e performer teatrale. Esperto nella vocalità medievale, rinascimentale e barocca, nella polifonia vocale e nella tecnica del Canto degli Armonici. È ideatore del metodo socio-musicale VoxEchology. È anche musicoterapeuta e collabora con hospice per malati oncologici terminali. Conosciamolo dalle sue parole. Buona lettura!

Ciao Raffaele, benvenuto a “Racconti d’Arti”. La tua storia artistica è molto ricca. Per iniziare, però, parlaci un po’ di te e di come è nata la tua esperienza, in primis, con la musica.

Cara Serena, ti ringrazio per avermi invitato e anche per esserti interessata alla mia ricerca socio-musicale.

Ciò che rende ricca la storia artistica della mia persona è il senso di incontenibilità che si muove tra sussulti di rabbia gioiosa, dolore profondo e ipovedenti speranze, per il fatto di appartenere a una specie animale che è così intelligente sopra tutte da voler scadere puntualmente, nei momenti migliori del suo frastagliato fiorire, lungo il passeggio sdrucciolevole ed eccitante che segna i confini tra il baratro e l’autoestinzione. Che poi tutto questo vada a ripercuotersi nella vita del singolo in ascolto, sin dall’infanzia, direi che ci può stare e persino molto bene. E allora, viva il trauma che è portatore sano di artistica materia prima.

Niente male come overture, potresti dire. Abbiamo però una intera suite da comporre, noi artisti tutti, sopra questo pensiero d’apertura doverosamente pessimista, perché intellettualmente onesto. Una volta cominciata la danza della vita, essa attende il suo segnante sviluppo e la sua autentica conclusione. In questo tracciato compositivo e ricostituente, che ci ricorda quanto il nostro tempo di vita individuale su questo devastato pianeta sia piuttosto limitato, il ricorso alle altri arti, al di là della musica in senso stretto, diventa necessario dovere estetico.

Così il linguaggio musicale cerca il sostegno della danza e del teatro, delle arti figurative, del pensiero umanistico tutto, compreso quello scientifico che da esso comunque si estende, per chi fosse ostinato e avvezzo alle brusche e miserevoli separazioni, anziché alle compromettenti intese di coloro che amano creare differenze per costruire eleganti contrasti e temporanei accordi di pace, in continua e strategica sequenza di interazioni ben calcolate e sempre critiche.

Ti presento così il vero succo di un pensiero altamente polifonico, che per me è ormai senso e ragione di vita. Se penso al bambino di cinque anni che sono stato e che – essendo io siracusano toto corde – caricato di tragedia dal territorio alla famiglia, mi fiondavo sul pianoforte di mia madre per pestarlo con le mie “manuzze” con in mente “Also Sprachst Zaratustra” di Richard Wagner, appena sentito qualche sera prima sopra il film Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, dato in seconda visione su Rai Uno – ed era il 1971 –, potrai ben capire come rispondo a questa tua prima domanda.

Fortunatamente, il mio cammino è piuttosto simile a quello di tanti artisti e di tante artiste che hanno assunto in sé l’impegno a contribuire, in piena esaltazione e delirio consapevole, al cambiamento di questa società umana, profondamente malata. Altro che “arte per l’arte”! Qui e ora, come ultimamente piace dire ai più, in questo spazio-tempo di necessità estetiche impellenti, c’è l’urgenza di riconoscersi coi propri simili, rintracciarli sul web, compattarsi in rete, agire e non più soltanto sottobosco, per il recupero organico e riorganizzato di questo genere umano, pietosamente disorientato.

Oltre a essere autore e musicista, tu sei anche “CantAttore”, in cosa consiste questa tua attività, svolta anche in gruppo?

Per il gioco del CantAttore, dove essenzialmente metto insieme elementi di folle alternanza e commistione di parola e musica, secondo le diverse esigenze del teatro musicale e delle letture animate, è prevalsa la necessità di arricchire la mia griglia di lavoro e irrobustire a ventaglio non solo i miei presunti talenti, ma anche di inventarmene altri, per il desiderio di raggiungere in ogni modo le persone, il pubblico: la gente, quella che pur non capendo vuole capire e che per questa essenziale ragione deve essere condotta per mano dentro l’irrequietezza della psiche creativa e dei suoi rischiosi labirinti; ma anche di quella distruttiva, perché ognuno di noi appartiene a questa specie animale assurda, capace di produrre materia orrevole e divina al contempo, dove, in ogni caso, l’incontro e la conoscenza con la stravaganza e l’ovvietà ti aiutano a superare il senso del ridicolo, vero nemico del gioco.

E ripetiamo allora il mantra ai quattro venti: “giocare” è il verbo che in buona parte del pianeta, al di là del classico inglese “to play”, equivale all’espressione del performer essenzialmente musicale, ma conduce anche al linguaggio di coloro che giocano sul serio con la danza, il teatro e le arti tutte, sport incluso. Suonare vuol dire giocare ed è un lavoro, che va pagato per risarcire l’impegno a essere al contempo testimoni e prova di qualcosa che di umanamente bello può esistere, e che sono le Arti, rispetto a tutto il resto che è pietoso scempio. È infatti un giocare che non è mansueto passatempo, ma vero diletto e inquietudine, passione ragionata e farneticante, impegno anima e corpo, tecnica e addestramento, mestiere e professionalità, competenza e valore, incontro e scontro, dignità e missione.

Di certo non è una cosa inutile, benché si vogliano far passare sempre le qualità artistiche da questa angustiante viuzza, quasi fossero un problema per la società raziocinante e arida che ha sempre governato e pur sempre si lamenta di non poterlo fare appieno, ossia con la vana speranza di poter abbattere l’ineffabile tumulto della bellezza, che scuote e ripercuote verità scomode e a piene mani.

“Estetica della performance” è il tuo terzo saggio, edito da Mimesis nel 2021, in cui tratti del metodo socio-musicale da te ideato, dal nome “VoxEchology”. Puoi parlarci di questo libro e spiegarci in cosa consiste questo metodo che connette formazione artistica e percorsi relazionali?

Le idee che ho proposto in questo recente saggio, piccolo ma assai denso e intricato, passano da tutta una serie di argomentazioni e di riflessioni che presentavo già nelle due precedenti pubblicazioni (VoxEchology e Danziamo la voce fino alla morte ndr).

Esse trascinano con sé il mio interrogativo chiave, la mia primaria visione su una possibile domanda di ricerca. E te la porgo in due diversi frammenti per mostrarti lo stesso tragicomico bivio:
a) “Avremmo avuto un’umanità diversa, se fossimo riusciti ad applicare i principi della polifonia al comportamento civile?”;
b) “Se i principi della polifonia, la cui bellezza è frutto di trame a intreccio e di eleganti contrasti tra le parti in gioco, diventassero schemi di relazioni-modello nella vita quotidiana di ognuno, vedremmo nascere nuove comunità umane?”

Ecco la finalità cardine del mio progetto artistico e socio-musicale. In “Estetica della Performance” (Mimesis 2021), anche grazie alla splendida prefazione del filosofo Carlo Sini – che non smetterò di ringraziare –, questo mio pensiero diventa la linea guida per l’addestramento dei performer sulla scena, per una felice relazione fra loro stessi sul palco e col pubblico in sala, nonché per la formazione di chi non ha ancora compreso bene quanto rilevante sia la figura dell’insegnante o di un membro di una equipe sanitaria-ospedaliera se idealizzata come artista delle relazioni d’aiuto, nella performance del prendersi cura degli altri e, in maniera diversa, anche di sé stessi. Dato questo assunto, è più facile procedere verso la comprensione del nome stesso che quasi vent’anni fa diedi al metodo.

“Estetica della performance” di Raffaele Schiavo

VoxEchology è la logica del riflesso e delle riflessioni che la nostra voce sceglie come diretto e travagliato prolungamento del corpo. È la voce della ninfa Echo che viene a patti con lo sguardo di Narciso. È la mutua ricerca delle due categorie di riflessi che essi incarnano: quella del sentire, in tutte le sue articolazioni oltre l’ascolto, e quella del vedere.

E finalmente, per ipotesi e per reciproco indottrinamento, con l’intenzione di operare insieme. Merito dei riverberi e delle sottili risonanze che muovono la nostra intelligenza musicale verso la ricerca dell’altro, per un proprio personale senso di completezza e di scambievole riconoscimento delle rispettive identità. La faccenda non può che essere complessa e va a complicarsi sempre più, via via che l’intrigo fra le voci in campo aumenta e si infittisce.

Inutile, dunque, prendersela ancora con la natura umana, pur essendo essa alla matrice di ogni nostro fallimento e miseria. Il pensiero polifonico presenta, invece, l’opportunità di riconfigurare i tratti critici delle nostre contraddizioni e di tutti i paradossi, per sfidare l’incontenibile e dargli il dovuto spazio-tempo di espressione, di elaborazione e di continuo aggiustamento.

Così Voxechology traccia la partitura delle sue quattro coordinate:

1) quella educazionale, per l’apprendimento di condotte sociali che siano ispirate ai processi polifonici, affinché voci diverse possano intrecciarsi felicemente insieme, pur muovendosi fra loro in giochi di contrasto e allineamento;

2) quella formativa, per addestrare diversamente alla musica e al teatro, al fine di acquisire un criterio estetico che riformuli l’umana necessità in soccorso alle relazioni d’aiuto;

3) quella artistica, per creare performer adeguati alla trasmissione degli ambiziosi principi VoxEchology e per la realizzazione specifica di spettacoli e altre performance;

4) non ultima, quella terapeutica, per acquisire ulteriori competenze relazionali attraverso il linguaggio musicale e teatrale, perché esse siano portate nei contesti del dolore, in aiuto ai programmi di cura delle istituzioni sanitarie e nella costruzione di progetti di musicoterapia.

Di questa obbligata quadrilaterità, ne risente assai e puntualmente la mia intera produzione artistica, specialmente come compositore e autore.

Raffaele Schiavo - VoxEchology - Formazione

Tu sei anche un formatore e svolgi in tutta Italia e all’estero laboratori di diverso tipo. Ce ne parli?

I laboratori esperienziali, quelli che ormai tutti noi siamo abituati a chiamare “workshop”, sono per me strumenti necessari per trasferire ogni sorta di idea compositiva, didattica, comportamentale e artistica in genere. Sono il cardine della mia ricerca socio-musicale e, in quanto modalità di riferimento per il corretto insegnamento di qualsiasi disciplina, ritengo siano motivo amorevole di insegnamento, nonché prova ineccepibile di una tale vocazione, per ciò che si intende gioiosamente trasferire a piccole e grandi aggregazioni di umani.

Dunque, i workshop ritengo siano il contenitore ideale per filtrare al meglio certezze, dubbi e speranze intorno al mio VoxEchology, garantendomi tra l’altro una continuità del pensiero creativo che rechi in sé la sua giusta e necessaria evoluzione. Nei workshop, oltre a presentare le mie teorie, preparo i partecipanti ad affrontare le tecniche attraverso cui costruire performance artistiche, relazioni d’aiuto e soluzioni estetiche di ampio respiro, tuttavia focalizzandole anche entro le specificità e le richieste di ognuno.

Tra i miei workshop più diffusi, oltre quelli circoscritti alla formazione degli esperti in fine vita e cure palliative e su come integrare ad esse gli interventi di tipo artistico, mi piace puntare a due tra quelli che ormai riscuotono un certo successo nei più disparati ambiti, ossia anche tra persone senza specifiche competenze, giacché spesso apro i miei laboratori esperienziali a chiunque avesse soltanto piacere o curiosità a frequentarli.

Questi i due titoli con i relativi sottotitoli: 1) La Polifonia come felice espressione della complessità umana. Individualità e salute dal corpo sociale; 2) Il canto sacro e profano nella cristianità medievale. Risonanze acustiche ed emotive nell’apprendimento musicale di gruppo. Sono due workshop assai complementari fra loro.
E il più delle volte finiscono per trasformarsi in vere e proprie performance, da mostrare a un pubblico che si trova ad aspettare in un altro contenitore, diverso da quello scelto per il laboratorio, che poi diventa suo implicito, volutamente rischioso, prolungamento.

Il leit motiv è lo stesso di sempre: i principi dell’Armonia e del Contrappunto applicati al comportamento civile, per aprirsi a una visione di comunità felice e funzionante. La costruzione immediata di sequenze musicali, spesso improvvisate, il più delle volte strutturate a tavolino, presenta ipotesi di cambiamento che non devono reprime la complessità della mente umana: devono, invece, provvedere alla risoluzione estetica dei suoi inaccessibili paradossi e di ogni conflitto tra le diversità.

Attraverso un linguaggio musicale e teatrale, strategicamente mirato a compiersi in tal senso, si impara a sapersi spendere con gli altri alla ricerca di una vocalità di gruppo contaminata da ipotetici immaginari medievali, seguendo tecniche di canto e di gestione della corporeità sulla scena. Ci si ritrova insieme, in un percorso di intrigante aggregazione per giocare l’esercizio artistico e nelle sue continue variazioni al tema: schemi di interazione musicale per una architettura relazionale che sia modello di condotta di vita. L’invito a realizzare la sacralità di un rito perduto produce inevitabilmente una festa all’insegna dell’ironia e della satira.

La complessità di questo multiforme sentiero esperienziale dovrà pur renderci disponibili a versioni uguali e contrarie di una stessa verità: dare dignità estetica e rispettoso aggiustamento a tutte le follie e le stravaganze, i torti e le ragioni di quell’incontenibile flusso di pensieri e azioni che la mente umana tendenzialmente partorisce, nella sua limitata e angustiante esistenza dentro una corporeità programmata con la scadenza, insieme al suo inevitabile decadimento.

La speranza che siano i procedimenti culturali a espandere, quasi in forma di vita eterna, le idee e le soluzioni per una concreta riparazione delle faccende umane, è diventata la ragione che permea ogni giorno la mia esistenza. Anche se, a dovermi guardare intorno, mi sento cadere le braccia.

Raffaele Schiavo - VoxEchology

Parliamo nello specifico di Musicoterapia e dell’utilizzo della musica come risorsa anche per accompagnare chi è arrivato al fin di vita, a casa o negli hospice. Usiamola questa parola, Morte.

Si muore, infatti. Ed è questa faccenda della chiusura della vita che si ostina a non chiarirsi, che è dura a digerirsi e a metabolizzarsi per buona parte degli umani, educata ad accecarsi di folle onnipotenza e a ingozzarsi di tecniche della dimenticanza, davanti al tabu pornografico della morte.

Così come la decenza estetico-musicale mira a costruire brani che abbiano un inizio, uno sviluppo e una chiusura, abbiamo noi stessi, in quanto persone, un lasso di tempo fisicamente limitato e psicologicamente indefinito per vivere la nostra esistenza in maniera sensata e non da isolati eremiti, ma con gli altri. Se ne evince che la spinta alla mera sopravvivenza, ancora all’insegna della meschinità che si lascia guidare dal vessillo mors tua, vita mea, scade nella sua mortificante pochezza e nell’esplicita viltà a non voler cogliere la forza del corpo sociale nella ricostruzione dell’identità e dell’integrità di ciascun individuo.

È impresa assai ardua convincere sui vantaggi che uno sviluppo delle reciproche individualità, ad ampio spettro, possa avere finalmente la meglio, a discapito di quel putrido e usurato individualismo che ancora ci caratterizza. Per riconoscere il fallimento, non basta di certo dichiararlo, sebbene quello è e sarà comunque il primo doveroso passo. Tocca rivestirlo del più nobile rituale e trasformarlo in riscatto visionario, ancor meglio se attraverso il criterio estetico.

È un grande onore per me essere riconosciuto e gratificato come valido esponente della musicoterapia e delle Creative Arts Therapy (CAT) nel delicato settore istituzionale e universitario delle Cure Palliative e del Fine Vita. E qui colgo l’opportunità per ringraziare la casa editrice CLEUP nella persona della carissima Andreina Bardus, che a Padova si distingue per qualità e contenuti superiori. Con lei, il mio precedente libro “Danziamo la Voce fino alla Morte” (Cleup 2018), è stato motivo di lustro e di importanti opportunità lavorative, sia come docente che come musicoterapeuta.

"Danziamo la Voce fino alla Morte"

Tra quelle pagine ho racchiuso le più interessanti vicissitudini fra pazienti e loro familiari, fra medici e staff ospedaliero, fra visitatori occasionali e artisti d’ogni sorta, in quel capitolo dedicato che si chiama I Racconti dell’Hospice. Nella prima parte, invece, presento la modalità con cui delineo i miei interventi, insieme alle finalità e agli obiettivi che rendono così specifica e ancora poco conosciuta l’area palliativista.

Ne traccio qui alcuni: ridurre le tensioni relazionali; costruire esperienze di emergenza spirituale; dar vita a riti e rituali di gruppo, attraverso il gioco della finzione e delle maschere per elaborare sintomi e necessità, angosce e desideri; attingere espressioni musicali e teatrali dal repertorio sacro e profano antico, in particolar modo quello medievale, per aiutare morenti e familiari a instaurare contesti di gioco entro cui recuperare verità importanti e ogni sorta di sospesi.

Non ultima, la possibilità di estendere la progettualità oltre le mura sanitarie, potendo coinvolgere l’intera cittadinanza nelle questioni relative al fine vita e a ciò che accade tra i vivi dopo la morte dei loro cari: e cioè, nei processi di elaborazione del lutto e nella diffusione delle procedure attinenti le cure palliative, nonché la conoscenza delle normative vigenti sul tema complesso del fine vita, in Italia e in Europa.

Di seguito, un video dal contenuto “sensibile” e delicato. Un momento certamente drammatico, ma anche una testimonianza umana dalla bellezza profonda, per il messaggio, per il segno che lascia, per un naturale evento che, come la nascita, ci riguarda tutti. Prima o poi. Saper vivere e saper morire, è una questione di consapevolezza.
Raffaele Schiavo è con la signora Faustina, che è accompagnata al fin di vita, così come ha scelto.
Quello che segue fa parte del progetto di musicoterapia in hospice e a domicilio, per pazienti oncologici terminali e loro familiari. 

Per approfondire

Profilo Facebook: Raffaele Schiavo
Pagina Facebook: Raffaele Schiavo
Youtube: @harmonicsinger

Mi piace (0)
Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *