Oggi pubblico la prima segnalazione di un autore edito dalla casa editrice napoletana, La Bottega delle parole, che è un ramo dell’omonima associazione, che possiede anche una libreria a San Giorgio a Cremano. Un realtà locale ben radicata. Ho iniziato da poco una collaborazione con il loro ufficio stampa e di seguito trovate l’intervista ad Alfredo Carosella, architetto e scrittore di Campobasso, che ha vinto il Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Talenti Vesuviani 2020”, con il romanzo Sulla schiena del cielo e il Premio Unico Miglior Autore di Narrativa al Concorso “Caffè delle Arti” di Roma nel 2018, con il racconto Amore sospeso inserito nell’antologia “Napoletani per sempre”.
Benvenuto, Alfredo. Prima di parlare del romanzo, puoi raccontarci un po’ di te e di come è nata la tua esperienza con la scrittura?
Apparentemente tutto è iniziato nel 2011, quando ho sentito l’esigenza di raccontare la storia dell’adozione internazionale del mio secondo figlio. Con mia moglie ci siamo resi conto di non conoscere affatto il mondo delle adozioni, pur avendone degli esempi tra amici e parenti. Siamo rimasti sorpresi dalle lungaggini burocratiche e dagli ostacoli che abbiamo dovuto superare avendo già una figlia e ho voluto raccontare cosa ci è successo scrivendo il mio primo libro. Ho detto “apparentemente” perché, subito dopo la prima pubblicazione, sono stato contattato da una ragazza che frequentavo quando avevo diciassette anni: mi ha mandato la foto di una lettera nella quale le scrissi “da grande farò lo scrittore”. Lo avevo dimenticato.
Il romanzo di cui parliamo è “A casa, io e te”. Cosa significa il titolo? Raccontaci un po’ della trama e dei personaggi.
La casa è un elemento centrale nella storia che racconto. Mario Russo, il protagonista, ne cambia diverse sin da quando era bambino: c’è la casa dell’infanzia che viene danneggiata dal grande terremoto del 1980; quella dello zio paterno che offre un rifugio temporaneo alla sua famiglia e che però Mario, stranamente, non aveva mai conosciuto prima. Si tratta di una bellissima casa a Posillipo, piena di luce e di libri. Poi ci sono gli alloggi “provvisori” che il Comune ha costruito per i terremotati: prima l’allucinante campo bipiani realizzato con cartone e amianto, poi il “Chiodo”, edificio che non esiste realmente, ma che ho piazzato davanti agli enormi fabbricati realizzati a via Taverna del Ferro a Napoli Est; sono quelli con i murales di Jorit tra i quali spicca il Maradona più grande del mondo. Proprio in queste settimane si è appreso che il Comune demolirà gli alloggi “provvisori” (che sono lì da quasi 40 anni) per riqualificare l’intera area con i fondi del PNRR. Mi fa una certa impressione pensare che il mio libro resterà una piccola testimonianza di ciò che è stato.
Il romanzo si svolge tutto in una notte: Mario Russo è un uomo di mezza età che vive in un alloggio popolare insieme al figlio affetto dalla sindrome dello spettro autistico, in una sorta di famiglia allargata composta da Bianca, che lavora in un night club, e Luigi che lavora in una scuola del quartiere. Si tratta di diverse solitudini che si incontrano, si sostengono e – a loro modo – si amano.
Ci sono riferimenti biografici nel tuo romanzo? Esperienze personali?
No, nulla di personale, a parte la mia professione di architetto, che mi porta ad avere sempre uno sguardo particolarmente attento sulla città contemporanea. Sono convinto che ciò che costruiamo ci rappresenti nel bene e, troppo spesso, nel male.
Nel tuo libro si parla di valori come l’amicizia, la solidarietà, ma anche condizioni come la solitudine. Si parla di cambiamento. Qual è il messaggio che proponi?
Mario ha una vita difficile sin dall’infanzia; eppure, conserva intatta la speranza in un futuro migliore. Come è possibile? Mario non è solo: prima ci sono i genitori che lo crescono con amore; poi gli zii, in particolare Angela che gli trasferisce la passione per la lettura dei romanzi e la convinzione che leggere possa salvare la vita; infine, i vicini di casa che gli offrono qualcosa di ben più grande di un semplice supporto. Il mio è un sommesso invito a non isolarsi, a fare rete e provare a tutelare il bene comune. È anche un invito a posare il nostro sguardo sugli altri: magari lì fuori c’è qualcuno che aspetta il nostro aiuto.